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Il mare alla rovescia

Roberto Milan

Il potere e la sua fine: storia di un metamorfosi, con colpi di scena e momenti di attesa. L’agonia di uno spietato e terribile dittatore è narrata con crudezza, con scarne ma incisive descrizioni del suo percorso verso la morte. È un’agonia intercalata dal susseguirsi di scene di un disumano e solitario passato, trascorso per raggiungere il potere. Per questo spregevole personaggio l’agonia non può essere che lunga e dolorosa, ma il suo spirito crudele subirà un’inattesa metamorfosi con la morte materiale. Impossessatosi di un nuovo corpo tramite il quale assurgerà alle più alte vette della purezza, verrà punito dalla codarda classe dirigente, timorosa di perdere i suoi privilegi, ma non dalla popolazione desiderosa di lealtà e di giustizia.                                                   RAFFAELLA CASTAGNOLA

Roberto Milan è nato a Tortona nel 1937 e abita a Chiasso dal 1946. Ha iniziato a scrivere poesie e racconti in giovane età. Ha pubblicato due raccolte di poesie “Il canto delle rane” Milano 1963, Uomo antiuomo” con propri disegni, Como 1967, il romanzo “La valle dei Templi” a puntate sul Corriere del Ticino di Lugano, 1965 e l’antologia di racconti “Il carnevale di Mario”, Agno 1977, già pubblicati su “Almanacco di vita chiassese. In seguito si è dedicato principalmente alla pittura allestendo numerose esposizioni personali e partecipando a collettive. Ha recensito mostre d’arte per il quotidiano “Il Dovere”. Dopo il 1997 ha ripreso l’attività letteraria alternandola alla pittura.

ISBN: 9 788896 992098                 Edizioni Opera Nuova, via Maraini 11, CH-6900 Lugano

 info@operanuova.com       www.operanuova.com

 

                                                                IN LIBRERIA

 

I prezzi dei dipinti sono:

Da CHF 400.- a CHF 1.700.- per i pastelli e le tempere.

Da CHF 900.- a CHF 10.000.- per gli oli.

 

 

Attualmente due dipinti sono esposti a Cabbio nel Museo etnografico della Valle di Muggio 
 
 
Miei articoli di recensione
 
 Breve incontro col poeta e pittore Tarcisio Canonica.
             Un capriaschese che vive in Francia
 
 
Tarcisio Canonica è nato a Bidogno l’11 dicembre 1931. Ha frequentato la Scuola d’Arti e Mestieri di Lugano per quattro anni, quindi, per tre anni, la Scuola di Belle Arti di Ginevra. Ha effettuato alcuni viaggi: il primo di tre mesi in Svezia, poi il necessario pellegrinaggio intorno al “Mare nostrum” – Corsica, Spagna, Marocco, Tunisia, Grecia, alcune sue isole di luce, la Jugoslavia con i suoi minareti “che spiano l’Oriente”, l’Italia, naturalmente e la Francia “che dal Mediterraneo alla Bretagna è un grande mosaico di bellezze”.
In Francia vive ormai da più di quindici anni: a Parigi ed in Alta Savoia e poi in differenti regioni nel “chiaro mezzogiorno”.
Si è dedicato alla pittura e alla poesia fin da giovane. Ha pubblicato nel ’55 il libretto di versi “Sulla sponda”.
Come pittore ha esposto solo e in gruppo in vari luoghi: nel 1967 gli è stato attribuito il primo premio internazionale di pittura della Costa Azzurra. Nel1972 ha pubblicato la raccolta di poesie “L’albero - il vento”. Vive attualmente a Beaumes de Venise, in Valchiusa.
 
*****
Veniamo da Lione mia moglie ed io, sull’autostrada piatta ed interminabile che va verso il mare.
La giornata è bella e calda, un po’ ventosa, di quel vento che spesso soffia a raffiche nella valle del Rodano e che obbliga i vignaiuoli a coltivare la vite bassa, rasoterra.
Ci fermiamo a Orange a vedere i ruderi romani: L’Arco di Trionfo e l’anfiteatro con il poderoso muro di scena, l’unico rimasto ancora intatto.
E poi andiamo a cercare il Canonica a Beaumes de Venise, a una ventina di chilometri da Orange. La strada si fa stretta e sinuosa fra i campi piatti e erbosi, poi si inoltra fra colline coperte di ulivi, ciliegi e vigne fino ad arrivare sull’ombrosa piazza di Beaumes, un villaggio come si suol dire, un po’ fuori dal mondo, in quella Valchiusa che già fu cara al Petrarca.
È mezzogiorno, mangiamo qualcosa in un ristorante con grande sala, uno di quei luoghi d’incontro di paese dove si mangia, si beve, si gioca a carte, si tengono occasionali incontri politici, si discute di sport e dei problemi del mondo e della zona, e all’ombra dei platani si gioca alla petanque.
Alla fine del pranzo chiedo alla giovane cameriera di Tarcisio Canonica: lo conosce ed un giovanotto, di quelli che passano al bar il resto della loro vita, si offre di condurci alla casa.
Ci inoltriamo su fra le vecchie casa del paese e ci fermiamo in un crocicchio di viuzze piene di sole e di ombre davanti ad una casa rosa addossata alla roccia.
Il ragazzo chiama: Canonica ci sono amici dal Ticino!
Si affaccia uno alla finestra: rimane un po’ stupito, non ci conosce, come noi non conosciamo lui. Scende ad aprirci la porta e ci fa salire in una sala con camino e con mobili antichi. Gli portiamo i saluti di Gino (Macconi) e della mamma e si vede che è felice. Ci sediamo attorno a un vecchio tavolo rotondo, ci offre una grappa in vecchi bicchierini scompagnati e un caffè riscaldato nel pentolino, come fra vecchi amici di casa, e intanto arriva la moglie con le figlie. Il locale è fresco e la verde natura prorompente par che voglia entrare.
Si parla del Ticino, della Capriasca, da dove è partito, delle montagne delle quali qui sente la mancanza, del suo peregrinare francese, nell’Alta Savoia, a Parigi, sulla Costa Azzurra ed ora qui, in questa specie di eremo; e dell’eremita ha l’aspetto, con i lunghi capelli ben curati, il suo semplice modo di vestire, con la casacca senza maniche in grossa lana cruda, con quel suo farsi la sigaretta con le mani e tentare di accenderla con un vecchio accendino a benzina.
Il tempo per Canonica sembra non avere importanza; mi sembra un po’ filosofo, di quelli che ormai sanno tutto della vita e la prendono come viene, senza farne inutili tragedie. La libertà è dentro di lui e non ha bisogno di cercarla altrove.
Alle pareti sono appesi quadri di amici anche ticinesi (Macconi, Piccaluga,, Kerseboom, Tamagni e una piccola scultura di Selmoni.
 
Sopra un cassettone c’è del tiglio a seccare.
La moglie è più reale, più pratica: parla del costo della vita, del caffè che in Francia è meno buono perché viene dalla Costa d’Avorio, del lavoro (infermiera e sicuramente la sofferenza la vede vivere tutti i giorni) e di tanti altri piccoli problemi che affiorano e che bisogna risolvere.
Io tiro fuori la sua raccolta di poesie “L’albero – Il vento” pubblicata a Parigi in italiano e lo prego di farmi un autografo. E allora si parla di poesia, della faticosa ricerca dell’ultima parola, delle complicazioni del poter pubblicare, e di pittura e delle difficoltà che si incontrano per esporre, per farsi conoscere, per vendere: la Francia in questo campo non è più quella di una volta.
Intanto si è fatto tardi ed abbiamo ancora molti chilometri da percorrere.
Scendendo ci fa vedere la cucina che sta rimodernando e, passando  da una camera studio con una parete di libri ed un grosso volume di poesie sul tavolo, usciamo sulla strada assolata.
Ci salutiamo: sorride con  i suoi occhi chiari pregandomi di salutare gli amici. Forse ha un attimo di nostalgia: le montagne ticinesi, la neve che qui non si vede quasi mai, la mamma e tutti gli altri che ha lasciato partendo.
Mi sarebbe piaciuto vedere il suo studio, dove lui interpreta la vita, dipingendo, ma non ho osato chiederglielo per il timore di apparire troppo curioso.
                                                                                                                                                                 Roberto Milan
 
Pubblicato su: Il Dovere, Bellinzona, < 21 Ottobre 1977
 

 

 
Galleria d’Arte di Mendrisio
 
Chiuso, solitario, taciturno, con quel suo atteggiamento un po’ trasandato, con una certa aria trascendentale, con la   timidezza che lo porta a stare in disparte, con l’irrequietezza che lascia trasparire un profondo travaglio interiore, con lo sguardo attendo a ciò che accade intorno a lui, scuro nel volto e teso nei lineamenti, Costantino Guenzi appare come se si trovasse fuori dal mondo, chiuso nella sua intimità, nella ingenuità.
Non è facile farlo parlare: le sue parole escono, dalla bocca ben tornita, lente, misurate, pensate prima di essere pronunciate.
Dopo gli studi all’Istituto Superiore di Monza e all’Accademia di Brera sotto la guida, fra gli altri, di Atanasio Soldati, i suoi interessi culturali si sono rivolti verso gli espressionisti della Brücke, verso Kandiskij e il Gruppo del Cavaliere azzurro, ed ha osservato poi attentamente Nolde, Soulages, Pollock, De Staël, De Kooning.
Il suo processo creativo parte sempre dalla realtà.
Con un blocco di appunti va in campagna o gira per la città e osserva ciò che più lo affascina, ciò che più colpisce il suo stato d’animo del momento, annota colori, situazioni, luci, forme, cerca di percepire l’atmosfera che lo circonda, si lascia cioè “caricare” di emozioni.
In seguito, chiuso nel suo studio milanese, l’immagine che il suo occhio ha percepito si trasferisce nella mente e questa la rielabora operando così un trasferimento poetico.
Le sue realizzazioni sulla tela e sulla carta sono dunque il frutto delle emozioni del suo momentaneo stato d’animo, sono il suo diario intimo e appaiono così, di volta in volta, tragiche, drammatiche, candide e liriche. È un mondo di sensazioni spirituali realizzate con la forma e il colore.
In questo mondo caotico, ricco di falsi ideali, di falsi valori, di false profezie, di affannose rincorse dietro la moda per restare nel giro del denaro, Costantino Guenzi appare come un poeta puro, incontaminato, che vive la sua difficile vita di pittore con onestà professionale, nella solitaria ricerca tesa a realizzare sulla tela la sua profonda sensibilità emotiva.
Le opere esposte nella Galleria d’Arte Mendrisio sono quasi tutte di grafica e racchiudono un arco di lavoro di quasi dieci anni.
Molto belli sono, a mio parere, gli oli “Varianti rosso-ocra, “Città” e “Forme in costruzione”. Interessante per la vivacità dei colori e per la composizione è l’ovale “Daprès la rotta di San Romano”. Fra le opere grafiche ho annotato “Forme in costruzione”, “Trasversale rosa”, “Testa”, “Gouache”, “Ramificazioni” ed inoltre la china “Anatomia di forme” per la sua incombente drammaticità.
 
                                                                                                                                                                        Roberto Milan
 
Pubblicato su: Il Dovere, Bellinzona, 13 aprile 1979
                         L’Informatore, Mendrisio, 6 aprile 1979
                         Cenobio n. 2 Marzo-Aprile 1979
  
 
Espone a Mendrisio nella Galleria L’Immagine durante il mese di giugno il pittore Gabai.
Con una serie di piccoli oli, acquarelli, pastelli e disegni ci presenta una parte della sua creazione del 1978 e ’79.
Partito qualche anno fa con una ricerca informale sia pur sempre riferita alla natura che circondava il suo studio di Ligornetto, ora, che da circa quattro anni vive a Campora, un piccolo paese sul versante nord della Valle di Muggio, la sua pittura, pur rimanendo nell’ambito dell’espressionismo e molto libera nella pennellata e nel gesto, trova maggiori riferimenti nella natura che lo circonda.
Il suo studio, nella bella casa che ha sistemato a Campora, dove vive con la moglie e due figli, ha due finestre.
Una inquadra uno spezzone di roccia viva, frastagliata e stratificata a ridosso della quale è situata la casa e par quasi di poterla toccare tanto è vicina. L’altra finestra si apre sulla valle e lascia vedere il crinale di Caneggio, San Martino, i monti del Bisbino con prati, boschi e cespugli, e il cielo. Queste due continue e pur diverse presenze sono entrate col tempo nello spirito del pittore che ha incominciato ad osservarle e ad annotare i mutamenti col variare della luce, del tempo, delle stagioni, facendo di esse parte di tutto un mondo, dando loro, attraverso la sua interpretazione pittorica, una poeticità.
La mostra, disposta in due locali, rivela appunto i due diversi sguardi dalle due finestre sul mondo.
Nella prima sala sono esposti i quadri ispirati alla rocce, nella seconda i quadri che hanno per soggetto la valle ed il crinale di Caneggio, nel tutto e nei suoi particolari.
Ma la divisione è solo nel tema trattato. Infatti c’è nelle due sale una continuità poetica.
Gabai si avvicina alla natura sempre con amore: è per lui fonte di energia, potenza generatrice (roccia-madre), universo.
Non si tratta naturalmente di copie fedeli ma di interpretazioni, di evocazioni, di percezioni spirituali romantico-espressioniste che a volte rasentano l’informale. I colori sono i suoi verdi-grigi, i grigi azzurri, le varie tonalità di terre, i rossi sangue e i gialli luce. I suoi quadri sono spesso vibranti e nervosi, tesi in una ricerca continua di un equilibrio fra colore, forma, luce. Molto belli sono il pastello e l’olio “Piante sul crinale” tenui nelle diverse sfumature di verdi, gialli e terre chiare.
Sensibile nel colore e nella pennellata mossa, quasi settecentesca, è il piccolo olio “Crinale Caneggio”.
I due pastelli “Crinale boscoso” e “Mosca vegetale, morte” sono nervosi ed espressivi.
Vibrante è l’acquarello “Roccia Madre” e molto sensibile è il pastello “Roccia vegetale”.
Interessanti per la composizione sono i due oli “Roccia e acqua madre”. Pastosi, saporiti nel colore e ricchi di profondità e di luce sono i due oli “Roccia” e “Roccia scura”.
 
                                                                                                                                                                    Roberto Milan
 
Pubblicato su: Cenobio, luglio-agosto 1979
                             Il Dovere, Bellinzona, 25 giugno 1979
                             L’Informatore, Mendrisio, 22 giugno 1979
 
 
 
 
Ho visto le ultime opere di Gino Macconi, gli acquarelli, Le tempere, i disegni e in particolare gli oli.
Erano ancora appoggiati in sparso ordine alle pareti della Galleria Mosaico di Chiasso, in attesa di essere appesi e sistemati con rigore affettuoso con il quale Gino prepara le sue mostre e quelle degli altri pittori.
Li ho osservati con cura, analizzando il gesto e il ritmo della pennellata, la combinazione e l’impasto dei colori, gli accostamenti, la divisione degli spazi, i sottili giochi di velatura, il contenuto ovvero l’oggetto dipinto, la luce, ed ho compiuto l’inevitabile, anche se non sempre gradito dall’autore, possibile raffronto con gli altri pittori conosciuti contemporanei e dei secoli passati, e sono giunto alla conclusione che con queste ultime opere Macconi ha raggiunto una sua inconfondibile personalità pittorica da collocare fra i migliori pittori lombardo-ticinesi del nostro secolo, per il sofferto amore della natura che li contraddistingue.
Gino Macconi è un espressionista, cioè non si lascia adagiare nella contemplazione del paesaggio, ma lo vive, partecipa come uomo alla sua metamorfosi, interpreta sulla tela la sofferenza del contatto uomo-natura, natura-uomo che rare volta diventa un felice, ma assai breve, rilassamento primaverile, un abbraccio distensivo.
La natura per l’uomo è tutto, è vita, è sesso; l’uomo che dalla terra nasce, nella terra ritorna.
La presenza di una o due figure umane non ben definite, a volte persino con un accenno metafisico, nei suoi paesaggi     nell’erba, nel grano, nella terra, rappresenta un desiderio di lasciarsi abbracciare, di compenetrare nella natura stessa in un ultimo e definivo amplesso, di far parte di essa. Quando invece queste presenze umane cercano di uscir fuori, sovrastando la natura erbosa, si ha l’impressione che vogliano dominarla, soggiogarla distruggendola.
Questo dilemma crea una sensazione di angoscia, di malinconia, di solitudine. È il dramma del nostro tempo: è il timore della distruzione, di perdere la natura, di non riuscire a comunicare con essa, è la precarietà del nostro vivere su questo campo minato di bombe atomiche, di diossina, di egoismo, di potere incontrollato e sovrastante.
C’è, nei quadri di Macconi, un’atmosfera tesa, che già ho notato in altri pittori contemporanei che lavorano seriamente ed onestamente sia pure con tecniche diverse, che non si lasciano abbindolare dalle mode o da avanguardie intrise di propaganda. Si sente nell’aria un pericolo incombente, una nube, l’angoscioso terrore di perdere l’essenza della vita.
Questo amore angoscioso, sofferto, dilacerante, disperatamente umano, raramente festoso e sereno, è nella pittura di questi ultimi quadri.
 
                                                                                                                                                                   Roberto Milan
 
Pubblicato su: Il Dovere, Bellinzona, 7 dicembre 1978
                        Vita Nuova, Chiasso, 8 dicembre 1978
                        Cenobio n. 1, gennaio-febbraio 1979
 
 
 
 
 
 
 
Alto, magro, allampanato, vagamente fra le nuvole, Giancarlo Ossola ha l’aria di uno che del mondo, con tutte le sue bassezze e i suoi intrighi, se ne fa un baffo e che, dall’alto della sua visione, penetra nella vita sua e di tutti con filosofico distacco. Forse gli piacerebbe questo sogno ma in realtà, malgrado l’apparenza, anche lui come noi sente maledettamente l’alienazione alla quale ci conduce il vivere dentro il vortice della società, senza la possibilità di fermarsi un attimo a guardare il cielo con aria distesa e con lirico abbandono.
Nato a Milano nel ’35 Giancarlo Ossola, ad eccezione di qualche anno di sfollamento trascorso durante la guerra nel Varesotto, è cresciuto e si è fatto una cultura in questa città. Frequenta la scuola di disegno dell’Accademia di Brera e la scuola comunale di pittura del Castello Sforzesco. Dopo un breve periodo accademico, con grandi amori nei riguardi dei grossi pittori dell’Ottocento e Novecento come Van Gogh, Cézanne e altri, i suoi interessi culturali si spostano, per sua naturale predisposizione, verso l’espressionismo tedesco e i pittori come Bacon, Sutherland, Giacometti, Goia, Rembrandt, Seghers, cioè verso artisti che, oltre alla loro carica espressionista, hanno spesso nella loro poetica un, più o meno dichiarato, impegno civile.
Compie viaggi di studio visitando i principali musei d’Europa e intanto la sua pittura si va sempre più raffinando ed è il frutto, oltre che di un continuo lavoro di ricerca, di una maturazione culturale.
Infatti Ossola, vivendo in una città come Milano, che pur offre vantaggi considerevoli da un punto di vista degli stimoli culturali che solo una città aperta e viva può permettersi di offrire ai suoi cittadini, si rende conto, e lo esperimenta di persona, che i grattacieli del centro e gli anonimi palazzi-dormitorio della periferia sono il frutto di una disumana concezione della vita. Egli ci vive dentro (la città gli è cresciuta addosso) e si avvede che l’asfalto e il cemento hanno distrutto la natura e stanno riducendo l’uomo a una larva.
Già nella mostra che tenne a Chiasso nel ’68 il suo impegno ecologico è chiaro, anche se velato da una sottile carica ironica.
Oggi, nella mostra allestita alla Mosaico, il discorso poetico di Ossola si è perfezionato ed è divenuto più complesso, cioè il suo orizzonte si è allargato e coinvolge tutti gli aspetti negativi della città-mostro e della campagna resa disadorna e sterile ad opera dell’uomo.
Dopo un periodo di transizione che si realizza con immagini “spaziali” delle quali il miglior risultato appare nel quadro “Sedimentazione” dove, il vuoto assoluto è interiormente lacerante, il pittore dedica il suo impegno a rappresentare la città e il paesaggio, sia nel suo complesso che nei particolari (rapporto esterno-interno) con il tramite della sua sensibilità e della sua coscienza. Ne vien fuori una libera interpretazione di una natura in disfacimento, di una città che si disgrega, di una società stanca che si trascina verso l’autodistruzione, di una umanità squallida ed angosciata, abbindolata dall’ipocrisia delle buone intenzioni.
I colori sono spesso lividi ed aiutano ad esprimere con maggior forza la tensione drammatica che è nel quadro, e il segno è libero con una notevole carica espressionistica.
Fra i quadri esposti, oltre alle tempere che sono quasi tutte di ottima levatura, a mio avviso, i migliori sono: “Luogo chiuso con figure” che ha una luce tesa, “Sopraelevata morbida”, “Studio per testa-città”, “Testa microcosmo nella stanza”, Metamorfosi”.
 
 
                                                                                                                             Roberto Milan
Pubblicato su: Il Dovere, Bellinzona 2 marzo 1976
                          Vita Nuoca, 5 marzo 1976                    
                           Cenobio, n. 2, marzo aprile 1976
 
 
 
 
 
Siamo seduti sulle comode poltrone della Mosaico, io con il taccuino per gli appunti, Riccardo Piccoli con il sigaro spento in bocca, con il naso che esce fuori a triangolo come i personaggi di certe vignette umoristiche, con la furbizia che gli esce dagli occhi, con il vestito della festa e con quell’aria contadina ricca di vigore e di timidezza. Sul tavolo, fra i cataloghi di mostre e libri, due bicchieri e una bottiglia, alle pareti i suoi quadri.
- Allora Milan, di che cosa vogliamo parlare? – mi chiede mescendo il vino d’un bel colore rosso-violetto.                         
- Della tua pittura e di come ci sei arrivato – rispondo.                           
-  Assaggia questo vinello: non è molto vecchio, ha solo tre anni, ma l’ho imbottigliato io, è dell’Oltrepo pavese.  
-  Buono! – gli rispondo dopo averlo odorato e sorseggiato con calma. Gli sorridono gli occhi. Gli piace la genuinità delle cose, di quelle che vengono dalla terra.
-  È fatto con l’uva, solo con l’uva.
Poi, dopo un attimo, gli chiedo della sua vita e di come è arrivato ad essere pittore, e lui mi racconta con semplicità, un po’ schivo, le vittorie e le sconfitte della guerra che sta combattendo con se stesso.
Nato a Milano nel ’41 si trasferisce poco dopo con la famiglia a Bergamo dove vive tuttora. Dopo gli studi regolari, matura in lui la decisione di dedicarsi alla pittura e si decide a frequentare l’Accademia di Brera dalla quale esce nel ’65. Si dedica dapprima all’insegnamento a tempo pieno. Questa indipendenza economica gli permette di dedicarsi con libertà alla sua passione pittorica.
I suoi primi punti di riferimento sono Courbet, De Staël, i cubisti, una cerca pop-art, Cézanne e in genere i pittori francesi dell’Ottocento e il belga Permeke. Il suo è un lavoro di ricerca, di analisi, un sincero tentativo di scoprire se stesso, le sue tendenze, la sua maniera più sua di realizzarsi nel quadro. E così lavora come un forsennato, compie viaggi di studio in Europa, si mette a guardare il paesaggio, gli oggetti, le situazioni personali cercando di farli suoi, disfacendoli e ricomponendoli con accanimento, mai pienamente soddisfatto dei suoi risultati.
Intanto incomincia ad esporre le sue opere in collettive e in qualche personale a Milano, Chiasso, Parma e Bergamo, e a riscuotere qualche lusinghiero successo.
E così, poco per volta, viene fuori la sua poetica, il suo modo pittorico di interpretare la realtà, la vita. Incanalato in un filone lombardo, ma aperto a ciò che accade nel mondo, non ama la standardizzazione del suo dipingere ma si lascia trasportare dalla vita con filosofica intelligenza, cercando di cogliere l’essenza di ciò che dipinge seguendo la sua emozione sentita e sincera, con incertezza e con modestia, con contemplazione e con adesione, cosciente che tutto cambia e varia. La sua pennellata è libera, quasi informale, i colori sono spesso delicati e tenui, ma ciò che più colpisce è la luce che vive nel quadro.
Della mostra allestita in questi giorni mi sembrano particolarmente espressivi: “Oggetti”; “Tavola-oggetti”, “Paesaggio ”, “Olimpia” e i disegni nei quali l’emozione è stata catturata con bramosia.
                                                                                                                               Roberto Milan
Pubblicato su: Vita Nuova, Chiasso, 7 maggio 1976
                         L’Informatore, Mendrisio, 7 maggio 1976
                         Cenobio,n. 6 novembre-dicembre 1976
                                           
 
 

 

 
Pino Bernasconi ha accolto, nella sua prestigiosa “Collana di Lugano” nata nel 1942 e che ha al suo attivo pochi ma significativi nomi come Montale, Saba, Contini, Fabio Carpi, Giancarlo Vigorelli, Luciano Erba, Giorgio Orelli e lo stesso Pino Bernasconi con due libri di liriche in dialetto, l’ultima raccolta di poesie di Alberto Nessi apparsa in questi giorni, “Ai margini”.                                                                                                                                                                           Nato
Nato a Mendrisio nel ’40, Alberto Nessi trascorre la sua giovinezza a Chiasso, in un ambiente culturale piuttosto stagnante. Frequenta le Magistrali di Locarno e si dedica quindi all’insegnamento nelle scuole elementari di Novazzano e di Chiasso.
Incomincia a scrivere da ragazzo per sua naturale predisposizione.
Ama Pavese come tutti i giovani ed allarga le sue conoscenze leggendo e studiando i maggiori poeti e scrittori italiani e stranieri, formandosi così una solida base culturale.
Pubblica su Libera Stampa e su Cooperazione la sue prime poesie e brevi racconti. In quegli anni l’unica attività culturale chiassese è promossa dal Circolo del Cinema e delle Arti che, con Ennio Cattaneo e Bixio Candolfi quali stimolanti animatori, organizza, oltre alle proiezioni di pellicole di cineteca, spettacoli teatrali con il Piccolo Teatro di Milano, conferenze e dibattiti, serate musicali in collaborazione con la Gioventù Musicale e brevi viaggi di studio per mostre d’arte.
Viene così a formarsi un gruppo di amici che, sia pure nei limiti determinati dal vivere in una cittadina di provincia, cerca di allargare i propri orizzonti culturali.
In quegli anni Alberto Nessi è co-fondatore con Luigi Lurà quale presidente, e con me e un folto gruppo di giovani (Luisella Cantù, Maurizia e Tiziana Magni, le sorelle Mauri ed altri) e il supporto morale di Bixio Candolfi e Ennio Cattaneo, di una piccola biblioteca popolare con l’intento di diffondere il gusto per la lettura e di migliorare la situazione culturale chiassese. Per circa due anni l’iniziativa incontra un discreto successo, suscita non poche polemiche ed ha, fra l’altro, anche il merito di organizzare nei suoi locali, a puro scopo culturale, una decina di mostre di pittura e scultura. Pare che questi libri stiano ora marcendo nelle cantine del Comune.
Dopo circa cinque anni di insegnamento, Alberto Nessi decide, nel ’64 di chiedere un congedo per recarsi a seguire un corso biennale di Lettere all’università di Friborgo. Al suo ritorno riprende la professione di docente insegnano italiano al Ginnasio di Mendrisio.
Intanto ha accumulato nel cassetto un bel gruppo di poesie che, con pazienza e con cura, rielabora e ritocca con sottili ma incisivi colpi di lima. Nel ’69 esce la prima raccolta “I giorni feriali” editi dalla Pantarei di Lugano, nella quale appare chiara la sua linea poetica rivolta essenzialmente alla semplice e trita vita che si ripete giorno dopo giorno.
Nel ’72 si sposa e va ad abitare a Mendrisio, in una anonima casa di appartamenti, continuando con assidua cura la sua attività di insegnante e pubblicando articoli e poesie su diversi giornali. Entra a far parte, con gli altri scrittori ticinesi Giovanni Orelli, Giorgio Orelli, Plinio Martini e Aurelio Buletti del Gruppo di Olten, cha ha avuto inizialmente una funzione di rottura nei riguardi della cultura ufficiale svizzera, come la ticinese Associazione Scrittori della Svizzera Italiana (ASSI) ma che in questi ultimi tempi pare un po’ di quella sua vivacità intellettuale progressista. Questa mancanza di coesione è causata, oltre che dalla situazione culturale ticinese piuttosto ibrida, anche da un provincialismo deleterio dal quale Alberto Nessi cerca di rifuggire, cosciente come è che il Ticino è culturalmente parte integrante della Lombardia anche se politicamente separato.
Da pochi mesi abita in una vecchissima, ma bella e simpatica casa nel mezzo del paese di Coldrerio.
Il mondo poetico di Alberto Nessi è quello che, partendo da Pascoli, Saba e Pavese, senza patetici abbandoni, rappresenta storie di vita di gente umile e semplice, che soffre e gioisce come tutti, che non è nessuno all’infuori di uno stretto gruppo di conoscenze acquisite al bar, sul posto di lavoro, e fra i vicini di casa, ma che pur vive ed è presente. Le sue poesie sono cioè spesso il racconto di un episodio della vita di chi incontra sull’ascensore, o vede quotidianamente passare per strada, o incontra sul treno, al bar, o che gli è passato accanto colpendo in qualche modo la sua sensibilità. Ce ne racconta la storia con affettuosa partecipazione, con precisi riferimenti paesaggistici, con immediatezza, senza cadere nel banale o nella retorica.
Il suo non è un gesto di rivolta e la denuncia sociale si legge appena fra le righe; è un amoroso ma non cieco abbraccio con le persone che vivono “ai margini” della società, di coloro cioè che formano la base della piramide sociale e che non sono quasi mai tenuti in gran conto da quelli che stanno sopra anche se, di fatto, li sostengono con il loro silenzioso vivere.
I suoi versi sono lunghi e narrativi e il linguaggio diretto non lascia trapelare la lunga e laboriosa ricerca della parola ultima e definitiva. La sua forma non è aulica, non si perde in un vuoto accademismo, segue bensì i contenuti.
Mi risulta piuttosto difficile estrarre da questa raccolta le migliori poesie, appunto per questo cemento narrativo che le lega una all’altra, ed inoltre la mia sarebbe solo una scelta personale di quelle più vicine alla mia sensibilità.
Se è vero che il poeta è la coscienza del proprio popolo, è cioè colui che scava nella vita per estrarne la verità, mi pare che Nessi sia in buona parte riuscito nell’intento. Ma è ancora giovane e certamente troverà nuove verità nel suo profondo scavare, ed inoltre dovrà lasciare il tempo ai suoi contemporanei di comprendere ed apprezzare il suo messaggio.
                                                                                                                                                                         Roberto Milan
Pubblicato su: Il Dovere, di Bellinzona Martedì 20 gennaio 1976
 
 
 

 Incontro con lo scultore Vittorio Tavernari alla Galleria Mosaico di Chiasso

 
La libertà è libertà e non ha colore. Non c’è nessun surrogato che possa sostituirla. Naturalmente nel vivere sociale la libertà ha dei limiti: quando questi sono il frutto della maturazione sociale e civile dell’individuo equivalgono alla libertà, ma quando sono imposti dall’alto, sia pur mitigati da imbonimenti demagogici, diventano un fardello, una catena, un’indefinita prigione dalla quale per quanto lussuosa ed agiata possa essere, tenteremo di evadere.
Vittorio Tavernari è un uomo libero: un artista che vuol esprimere la sua sensibilità, la sua interpretazione del mondo, al di sopra dei formalismi, delle mode, delle imposizioni ideologiche e commerciali. Per Tavernari la libertà è poter esprimere la poesia e la drammaticità dell’uomo con le sue calme e le sue burrasche sia interiori (personali, individuali), sia esteriori (sociali e collettive). È autentico e sincero anche quando non riesce appieno a realizzare concretamente la sua emozione, ed in ciò è doppiamente umano.
Il suo interesse non può che essere la figura umana. L’uomo, principio e fine di tutti i suoi beni e di tutti i suoi mali: la lirica e la tragedia, la serenità e l’affanno, la paura, la solitudine. E la donna rappresentata quasi sempre col solo torso, con le sue forme tonde e sensuali, col ventre procreatore e con l’eburneo seno, madre e fanciulla, amore e turbamento.
Vittorio Tavernari è nato a Milano nel ’19. Il suo avviamento artistico inizia nell’ambito familiare, sotto la guida del padre, noto restauratore d’arte. A sedici anni entra nello studio dello scultore Wildt determinando così la sua scelta: sotto la sua sapiente guida si impadronisce delle varie tecniche scultoree. Dopo la parentesi militare durante l’ultima grande guerra, si stabilisce a Varese, ma per alcuni anni, fino al ’51, partecipa ai più importanti movimenti artistici milanesi (Numero, Oltre Guernica, ecc.) Dal 1948 è presente nelle più importanti manifestazioni artistiche del mondo.
La mostra allestita alla Galleria Mosaico è antologica: ci sono cioè sculture e disegni che rapprendano le varie tappe della sua vita artistica.
Un “Nudo di giovinetta” si riallaccia, con la sua opulenza vigorosa e docile, non priva di grazia, a certe Pomone di Maillol. Alcuni bronzi come “Tre figure”, “Nudo”, “Due figure” ed altre, eseguite con una serie irregolare di scaglie, sfaccettature, mi rammentano il disfacimento interiore dell’uomo, il decomporsi dell’anima.
Infine i legni, sui quali spiccano a mio avviso le due “Maternità” che vedo altamente drammatiche con il figlio strettamente aggrappato al seno, quasi volessero tornare nel grembo e, inoltre, un “Nudo” plasticamente rilevante e una “Donna che si sveste” teneramente sensuale.
 
                                                                                                                        Roberto Milan
 
Pubblicato su: Il Dovere, Bellinzona, 27 dicembre 1977
                           Vita Nuova, 23 dicembre 1977

 

 
Presso la Libreria Mosaico di Chiasso sono esposti in vetrina alcuni libri d’arte delle Edizioni del Milione di Milano.
I collezionisti e gli amatori sicuramente hanno già avuto modo di conoscerli e di apprezzarli per l’ottima fedeltà di riproduzione delle opere, sia a colori che in bianco e nero, e per la qualità del testo, affidato quasi sempre a ben noti critici e storici dell’arte, come Marco Valsecchi che ha curato monografie di Cesare Breviglieri, Arturo Tosi, Renato Birolli, Leonardo Cremonini, Umberto Milani, Franco Russoli con Massimo Campigli, Arturo Carmassi, Mario Radice; C. Ludovico Ragghianti ha presentato Giacomo Manzù; Lamberto Vitali con un’antologia critica su Giorgio Morandi; lo scrittore Giovanni Testori  ci introduce alla scultura di Giovanni Paganin. E questi non sono che pochi esempi, ma molti altri artisti sono stati autorevolmente presentati dalle Edizioni del Milione, come Carrà, Sironi, De Chirico, Zigaina, Mirò, Minguzzi, il ticinese Massimo Cavalli, Morlotti, Guidi, Klee, Cassinari, Modigliani, per non citare che i più illustri.
 
La Galleria Il Milione ha avuto una notevole importanza culturale non solo a Milano e in Italia, ma in tutto il centro Europa.
È nata verso la fine degli anni ’30, prendendo i locali in via Brera lasciati liberi dalla vecchia Galleria Bardi, con spirito piuttosto avventuroso ma con intenti ben precisi.
Nei primi anni Gino Ghiringhelli, coadiuvato dal fratello Peppino, organizzò una serie di mostre dedicate regionalmente (Veronesi, Romani, Siciliani, Napoletani, Veneziani, ecc.) a giovani pittori con buone doti artistiche, andando spesso a scovarli nei loro studi in giro per l’Italia, creando così intorno alla Milione un gruppo di studio e di interesse culturale che non si limitava solo alla pittura.
A fiancheggiare l’ope, ra della Galleria, fu fondata anche una Libreria del Milione e l’atti, vità si estese ad altri campi, organizzando conferenze e mostre sulla scenografia teatrale, in antitesi con l&r, squo;ormai nota scuola dei Benois alla Scala, esposizione di modelli di architettura e urbanistica in polemica con Piacentini che era l’architetto ufficiale dell’epoca, sfilate di moda con presentazione di figurini, dibattiti letterari, ricerche grafiche in tipografia.
Dopo due anni uscì il primo numero del “Bollettino” della Milione (stampato poi periodicamente), nel quale venivano presentati i pittori che esponevano, e l’attività svolta.
Nel frattempo in Galleria si presentavano le opere di Rosai, Garbari, Manzù in polemica col “Novecento”, Guido Gonzato (due personali) e, naturalmente, di molte giovani promesse.
Frattanto Ghiringhelli, nei limiti purtroppo ristretti causati dalle cosiddette sanzioni, cercò di mostrare ciò che avveniva fuori d’Italia, organizzando esposizioni collettive e personali di Kandinskij, Leger e gruppi di pittori soprattutto francesi, che allora rappresentavano l’avanguardia.
Nel ’33 nasce la rivista “Quadrante”, con direttori P.M. Bardi e Massimo Bontempelli, che cercò di divulgare fra polemiche a non finire (anche politiche) l’architettura “razionale”.
Nello stesso anno si apre la Triennale di Milano alla quale il gruppo della Milione partecipa attivamente.
Nel ’34 la Galleria lancia i cosiddetti astrattisti della Milione (in un clima ufficiale di realismo e di burocrazia culturale) e cioè i comaschi Terragni, Radice, Rho e i milanesi del gruppo BBPR (Banfi, Belgioioso, Peressutti e Rogers) nonché l’architetto Figini, i pittori Virgilio Ghiringhelli, Reggiani, Soldati, il primo Licini astratto e gli scultori Fontana e Melotti. Vengono organizzate mostre di architettura e si allacciano rapporti con Le Corbusier e con Gropius e altri artisti tedeschi che, fuggendo il nazismo, erano temporaneamente di passaggio in Italia.
Intanto i tipografi fondano la rivista “Campo Grafico” diretta da Gradi e Rossi proponendo nuove impostazioni grafiche e pubblicando libri su Atanasio Soldati e Fontana.
Nel ’35 vede la luce “Kn”, il primo libro edito da Il Milione dedicato all’astrattismo comasco e milanese, suscitando interessi e polemiche soprattutto fra i giovani.
Però le edizioni del Milione, curate principalmente da Peppino Ghiringhelli, inizieranno ad uscire con una certa continuità intorno al ’40.
Tutto questo lavoro di preparazione e divulgazione culturale, fatto con spirito avventuroso (considerando anche il clima politico non certo favorevole ad aperture mentali) ma soprattutto con intelligenza, con avvedutezza e con ben precisa scelta di gusto, contribuisce a creare intorno alla Milione un clima di fiducia e di credibilità che si espande un po’ per volta anche fuori dall’Italia.
Si viene così a creare una favorevole situazione di mercato dell’arte alla quale contribuisce la congiuntura economica pre-bellica, che si manifesta con una grande circolazione monetaria e con una ricerca di investimenti sicuri, immuni cioè dalla svalutazione. In questo periodo la Milione ha avuto l’acutezza di valorizzare l’arte metafisica, naturalmente con De Chirico ed inoltre con Carrà, Morandi (già scoperto nel ’34) e Sironi, presentando cioè dei pittori di indubbio valore artistico e che rappresentavano perciò anche un buon investimento.
Dopo la guerra la Galleria ha continuato, in un clima culturale più aperto, con rinnovato impegno, nella ricerca di artisti pittoricamente validi, allargando sempre più il suo mercato, arrivando persino a proporre opere a musei e a grandi collezionisti in Italia e all’estero. Allestisce mostre di Umberto Milani, Chighine, Morlotti, Romiti, Brunori, dei ticinesi Massimo Cavalli e Dobrzanski oltre a mettere in questione Wols per la prima volta in Europa.
Naturalmente tutta questa attività è stata affiancata con efficacia dalle Edizioni del Milione che si sono sempre più sviluppate presentando diverse collane (in diverse lingue) come le monografie di artisti italiani e stranieri, i Movimenti artistici, i Monumenti d’Arte italiana. Quaderni di scultori e cataloghi, lavori che hanno richiesto anni di studio e di ricerche.
Purtroppo corre voce che la Casa Editrice del Milione voglia cessare l’attività. Se così fosse questi volumi, in vendita alla Mosaico di Chiasso, entrerebbero presto a far parte della storia della cultura e potrebbero certamente diventare delle rarità.
 
                                                                                                                                                                       Roberto Milan
Pubblicato su: Cenobio n. 3 – Maggio-Giugno 1975
                           Vita Nuova, Chiasso, 9 Maggio 1975
                          Giornale del Popolo, Lugano, 3 Maggio 1975

 

 
Massimo Cavalli è un uomo difficile: schivo ed introverso, sembra sempre sulla difensiva, pronto a chiudersi in se stesso come un riccio per proteggersi da possibili attacchi esterni e a pungere, con i suoi sottili aculei, chi pretende di violare la sua intimità.
 
Proprio per questo motivo la sua pittura è tutta interiore, è cioè la sintesi di un’analisi profonda e millimetrica, compiuta con determinazione, con coraggio e con una incessante ricerca eseguita sulla natura e poi sulla carta e sulla tela.
Le sue opere sono come le pagine di un diario intimo: frutto di un amore critico, di una grande passione e di un forte desiderio di esprimere, con il disegno e la pittura, il suo colloquio, non sempre sereno, con la natura.
Naturalmente per arrivare a dei risultati bisogna anche essere sorretti dalla capacità d’intuizione e di invenzione, oltre che dal senso della qualità pittorica, e ciò finora non manca a Massimo Cavalli.
La Galleria Matasci di Tenero continua con questa mostra la sua attività culturale che a tutt’oggi non ha dato motivi di delusione e che mi auguro possa continuare su questa non facile strada.
Le cinquantaquattro opere (oltre la grafica) qui esposte rappresentano il lavoro del pittore dal 1970 al ’77.
Sempre di buona qualità sono gli oli fra i quali ricordo, per la loro intensità di luce e di contrasto, due piccoli pezzi: “Foglie” e “Roccia”; ma particolarmente mi hanno dato emozioni alcune tempere fra le quali  la serie degli inverni “Notte 1” e “Notte 2” e i due pastelli “Estate 2” e “Autunno” molto interessanti sia per la loro composizione, sia per la ricerca del colore, della luce e del contrasto, con soluzioni a volte coraggiose, ma di notevole efficacia e misura.
Molto interessanti per la loro sintesi sono gli acquarelli.
 
                                                                                                                            Roberto Milan
 
Pubblicato su: Cenobio, settembre-ottobre 1978
   



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